Allattamento: lottare e nascondersi, anche coi medici

Quando Sarah, mia secondogenita, aveva 11 mesi, ebbi una brutta infezione alle parti intime che andava operata subito. Prima del ricovero chiamai il reparto: contavo di allattare la piccola alla vigilia dell’intervento, e poi la sera seguente. Ma ebbi la sfortuna di beccare la caposala più stronza della Lombardia, la quale mi sbolognò dicendo che la piccola non era assolutamente ammessa.

Ho allattato tre figli. Se metto insieme gli anni totali dedicati a questo esercizio di nutrimento e d’amore, arrivo a sette.

Eppure di tanti anni solo tre o quattro al massimo, furono ufficiali.

Mi sono scontrata con una suocera che mi fissava, con mia madre che crede agli orari e al biberon, a quelle cosce strabordanti dei bebè da latte artificiale. Con medici che chiudono in un camice ogni più elementare saggezza ed evidenza. Mi sono nascosta in camere lontane dai parenti che consideravano i miei figli troppo grandi per il latte. Ho smesso di giustificarmi, dicevo alla mia bambina: “Sttt, andiamo a fare coccola, ma è un segreto.”

Perché?

Mentre digito per raccontarvi la mia storia, avrei voglia di mandarne una copia a tutte quelle persone che hanno accolto la mia menzogna, perché la loro chiusura altro non gli permetteva. Forse dovrei farlo.

Si arriva a smettere, per questo.

Per far smettere le male voci. Non l’ho fatto. Però quelle avevano scavato tanto che quando poi l’allattamento è finito naturalmente, ho quasi avuto sollievo.

Mi è dispiaciuto da morire, è una separazione come lo è tutta la vita di una madre. Come lo è il parto.

Ma potevo smettere la clandestinità.

Ditemi se vi sembra normale. In una società in cui si torna a promuovere la naturale simbiosi con il piccolo, dal co-sleeping all’allattamento prolungato, al portarlo in fascia, esistono ancora molte donne obbligate a vergognarsi di allattare.

Quando Sarah, mia secondogenita, aveva 11 mesi, ebbi una brutta infezione alle parti intime che andava operata subito. Prima del ricovero chiamai il reparto: contavo di allattare la piccola alla vigilia dell’intervento, e poi la sera seguente. Ma ebbi la sfortuna di beccare la caposala più stronza della Lombardia, la quale mi sbolognò dicendo che la piccola non era assolutamente ammessa.

Chiamai la Leche League ed ebbi conferma sui miei diritti di donna che allatta.

Chiamai il chirurgo stesso che mi avrebbe operato, e finalmente fu lui a chiudere felicemente questi miei tentativi che mi stavano rendendo insicura come una fuggitiva: “Certo signora, che può allattare.”

Lo sentii parlare fuori dal telefono, la voce che attraversa la corsia… “La Signora Capra, per l’intervento di venerdì: bisogna che possa entrare la bambina, perché la signora allatta.”

Le stesse trafile vedono innumerevoli donne protagoniste, anzi vittime, quando un medico prescrive loro una cura.

Va bene i primi mesi, quando sei una neo mamma, quando il mondo ancora s’incanta. Poi non fai più notizia, sei una paziente. Non fanno conti, non chiedono. Andavo dal mio medico di base: “Scusi, questo farmaco posso prenderlo anche se allatto?” ma sebbene fosse donna e madre, la mia domanda si spegneva sul suo volto come un fiammifero arrivato alla fine. Finché ho semplicemente smesso di chiedere.

Lei prescriveva, io googlavo, poi per sicurezza non assumevo.

Siamo pieni di prodotti vegan, sugarfree, glutenfree, light, lactosefree e via dicendo, molte persone scelgono una dieta per motivi personali e non di vera intolleranza o rischio per la salute. Eppure hanno il rispetto di tutti.

Una donna che allatta ha un solo limite nell’assunzione di qualcosa: aver scelto di amare il figlio ancora e anche attraverso il seno. Ma si trova a lottare.

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