La maternità è promettersi a uno sconosciuto

Bisogna pensare, sapere, che il figlio che abbiamo in grembo è qualcuno che non conosciamo. Una rivoluzione che abbiamo atteso, voluto. E, pure, così straordinariamente totale, quando varca la soglia della nostra pelle, che spesso ci trova impreparate.

Leggiamo di casi drammatici, di chi questa straordinarietà non è riuscita a gestirla, non ha chiesto aiuto. Chiedetelo sempre. La vergogna non esiste, non per una madre.

Nessuna è così “grandiosa”, e anche lo fosse: tu sei tu. Hai il diritto alle tue debolezze.

Così vi riporto un brano che scrissi i primi tempi quando Isabelle aveva pochi mesi. In quelle notti spezzate, sfinite. Una madre al terzo figlio chissà cosa sembra, da fuori: un’eroina. No: sono ed ero, una madre piena di fratture.

Hanno fatto un esperimento: hanno selezionato ragazzi e ragazze single, desiderosi di trovare l’amore perfetto. Eterno. Li hanno intervistati, sottoposti a test psicologici e colloqui. Un team di esperti seleziona i più adatti e forma delle coppie: ognuna di esse è destinata al matrimonio. Senza conoscersi, senza essersi mai visti né sentiti: lo chiamano “Matrimonio a prima vista.”

Lui è all’altare, aspetta. Lei è al di là di una porta: un nudo pannello di legno tra due vite. Due tempi, due spazi, due mondi. La porta si apre, le damigelle precedono. La sposa entra.

Il tappeto della navata che li separa si accorcia sotto i passi. Sotto il velo – l’abito che dondola, il bouquet che respira con lei – la vita trema.

L’ha guardato brevemente, nell’imbarazzo che le appanna gli occhi, e ora gli sta davanti. Sorride. Sorridono entrambi: di un sorriso che è una paura vestita a festa, bianca e nera, gioia e dolore. Affilato, che taglia mentre riluce.

E non è forse così, che diventiamo madri?

A volte vorrei essere ancora là, dietro la porta. Schiuderla, spiare chi c’è dentro. A volte vorrei restare ancora là, inchiodata sui primi passi della navata. Sapere qualcosa, rubare un segreto, una confessione, che mi preparino.

Sapere che ci saranno momenti in cui la parola più giusta per definire un sentimento sarà odio. Che ci saranno ore senza tempo né stagioni, di pianti duri come radici. E inciamperò.

Giorni di pura fatica, di leggi innaturali di un dare senza poco o nulla ricevere. Di investimenti che sanno di truffa. Gesti che sanno di sbaglio. Mani deluse. Urla incessanti che mi dettano urgenza, istanti in cui l’azione più semplice, vestirmi, lavarmi i denti, cambiare la piccola, metterla sul passeggino, diventa impossibile. Attimi in cui non so arrivare.

Nemmeno io, nemmeno adesso, che sono madre da anni. Anfratti in cui l’amore stenta. Come questa notte, che Isabelle piange, la prendo, la calmo, la metto giù. Di nuovo, e ancora. I nostri odori si cercano. Lei chiama e io la seguo.

Poi d’improvviso, ad eguale appello, l’amore non basta più. La rabbia la esilia: sento come un tonfo, qualcosa si spezza. In un attimo lei non era più niente. Piangeva, nel suo letto. Io piangevo nel mio. Lontane quanto il buio può portare. Dove non è la mia bambina: è una sconosciuta.

E siamo ancora lì, su quell’altare. Senza sapere niente. Noi siamo ancora il primo sguardo: sgomento e aspettativa. Gioia e paura. A scommetterci l’amore.

La maternità è promettersi a uno sconosciuto“.

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