La Senna correva poco lontano. Ai tempi vivevamo in una cittadina alle porte di Parigi.
Quel giorno c’era un cielo vivido, un vento sottile, una temperatura gradevole. La mia pancia ormai esondava. Ero uscita in tarda mattinata, giù per il corso che scende verso il lungo fiume e il parco, mi ero trovata un ritaglio di prato, il dosso dolce di una collinetta, e mi ero sdraiata con le cuffie del walkman alle orecchie.

Su Facebook mi arrivavano le foto delle compagne di corso: neonati già al seno, dolori finiti, travagli già guadati. Io stavo in punta di piedi, su quella data che mi avevano assegnato con una rotella di cartoncino colorato: mesi di contrazioni fasulle, un collo raccorciato, e adesso me ne giravo per la cittadella con una borsa, un telefono e un assorbente per paura che mi si rompessero le acque quando ero fuori casa, a battagliare con l’impazienza.

C’erano alcune mattine che la gravidanza diventava ispida: aveva fatto il suo tempo, nella mia testa, avevo preso tutto quello che c’era da prendere, lo spettacolo delle ecografie, l’attesa degli appuntamenti, la gioia vellutata e misteriosa dei guizzi acquatici del feto sotto la mia pelle, la cura di tutti, le premure, i sogni. C’erano mattine che volevo andare oltre: scavalcare il baratro del parto e finalmente volare.

La paura s’insinuava come un rivolo nella roccia: quando arrivi, quando nasci, figlio mio? Un punto angusto di colpa, il senso velato di un fallimento. Le altre avevano dato alla luce il loro bambino, io invece restavo ancora indietro. Qualcosa nel corpo aspettava.

Richiede un sacco di coraggio aspettare: richiede coraggio non sapere. Non avere controllo.
La gravidanza finisce come è cominciata: non sai quando il figlio arriverà.

Presi ad ascoltare tutte quelle canzoni che avevo preparato per noi. La mano lo accarezzava in grembo, fuori viveva la città: uomini in cravatta in pausa pranzo, le scarpe accanto, un giornale aperto sulle gambe incrociate. Donne coi figli su biciclette a rotelle, ragazzi in pantaloncini a fare jogging. E mi sembrò che aspettare fosse un incanto.
C’erano giorni che non sopportavo più quell’attesa. Quel giorno, invece, danzavo come una ballerina.

Provai a immaginare l’amore per un figlio e mi sembrò di riuscirci. E io potevo averlo e potevo avere anche questo. Avevo la certezza del figlio e la dolcezza della gravidanza, e nessuna delle due cose escludeva l’altra. Sospesa dove l’amore era già amore e l’attesa era ancora attesa, stavo in equilibrio su quell’attimo come a cavalcioni di una stella. E mi sembrava che non sarei mai stata più felice di così.

Non era vero: lo sarei stata. Ma intanto imparai l’attesa.

Non c’è nessuna gara da fare. Con le altre, con te stessa, con un regolo ostetrico che nulla conosce. La paura di oggi è dolcezza di domani. Quell’attimo impaziente che ti scuote è un’altra forma di felicità. È la stessa maternità che da tempo, e per sempre, pretenderà pazienza e fiducia. Una squisita dose di ignoranza.

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