Sono una fifona.
È stato facile dire facciamo un figlio. Lavoro in un posto che detesto. Mi hanno preso qualche anno fa, avevo bisogno di quel posto, avevo bisogno di un lavoro. Avevo bisogno di soldi.

Mi hanno fatto promesse mai mantenute. Poi un giorno domando un chiarimento, avanzo una pretesa. Lo sai come sei nato? Da una pretesa. Quella di diventare madre, certo. Ma anche quella di sapere. Là, in quell’ufficio con le vetrate che danno sulla grande strada, su vite diverse, su sogni che non prendono forma. Lei mi risponde “non è affar tuo”.

Le venivano chiazze d’orticaria sul collo quando s’innervosiva, cercava di schermarle con la mano, ma lo vedevo che, in un modo o nell’altro, la irritavo. Per un attimo ho creduto che avesse vinto lei, il capo: “È così. Se non ti piace, quella è la porta.”

Non me ne sono andata. Avevo bisogno di un lavoro. Avevo bisogno di soldi.
Ma avevo anche bisogno di un sogno.
E allora sai che ho fatto? Sono stata a casa un paio di giorni, mi sono presa una pausa, ho fatto due conti con quello che avevo, con quello che manca. E il sogno ha cominciato a prendere forma.

Quei giorni lì… erano i giorni buoni. Bisognerebbe avere le idee chiare, sai, fare le cose per bene, fare tutto con ordine. Ma quale sogno è un sogno se obbedisce all’ordine?
Mathias rientra la sera, gli dico: “Perché non ci proviamo?”
Non ti ho preso così, da un attimo di sconforto, non sei stato un’idea campata in aria, un alito, un profumo afferrato in corsa. Avevamo già parlato di te, figlio mio: solo che non sapevamo che saresti stato tu.

Non saresti stato tu, se, per dire, avessi aspettato le prossime vacanze, più tempo, più calma. Non saresti stato tu se non fossi stata così delusa dal lavoro, così incazzata. Non saresti stato tu se fosse stato un mese dopo, un giorno, un minuto.

Due settimane più tardi sono in salotto, davanti alla finestra del balcone. È grigio, fuori, una domenica senza suono. Ho passato questo tempo sospesa: ho pensato non è possibile, ci vorrà più di un tentativo. Ho pensato oddio, e se invece? Ho pensato lo voglio, con tutto il mio essere. Ho pensato sarà quel che sarà, che tu lo voglia o meno. Perché, la sola costante, era che avevo paura. Te l’ho detto, sono una fifona.

Questo forse qualcuna non lo dice. Magari non te lo dirò nemmeno io. Ma le madri hanno sempre paura. Il punto è che la maternità a volte è strana: è una delle poche cose in cui tra il dire e il fare non c’è di mezzo nessun mare. L’abbiamo detto e l’abbiamo fatto. Solo che adesso c’è quel test sul tavolo da pranzo, lo vedi? Appoggiato lì sulla tovaglia gialla a quadri. Tuo padre freme, io sono immobile come una scultura di ghiaccio.

E poi arrivano: due linee forti e nette. Come una gioia accanto a una paura. Allora lui prende il volo, lui che di riga ne guarda una sola, quella dell’HCG, parte, fa larghi giri intorno a me, mi abbraccia, mi stringe. Io resto ferma e non capisco niente. La sola cosa che mi viene da dire è: “Che bello, niente mestruazioni per un anno!”
Lo vedi che stupida che sono?

Ma intanto aveva vinto la vita.

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