Incinta. Oppure no. Mentre tutto, mentre niente, accade

La natura sa già. Non è incredibile? Non è da brivido un po’ folle e intanto quasi da sottile invidia?

L’avete fatto senza barriere né blocchi. Spalancati alla vita. Allora è un dirupo feroce, una vertigine buona. Poi però ti riallacci alle consuetudini, non puoi restare come i fermo immagine.

Qua e là, tra un gesto e l’altro, le prime accortezze.

Ti senti idiota: la carne cruda l’hai già smessa, perché non si sa mai. Il sushi lo assapori una sera, pensi è l’ultimo. Sorridi. Fai conti assurdi, del tipo “se dico che è l’ultimo di sicuro non lo sarà. Se non lo mangio, magari è davvero la volta che per nove mesi non lo potrò mangiare”.

Giorno dopo giorno.

Al mattino ascolti: come sta, quello stomaco? E perché sudi ogni notte, il sonno scalpita, è diventato una tempesta quel letto, quelle lenzuola non bastano mai, oppure ti soffocano?

Giorno dopo giorno.

Accadono cose strane. C’è una specie di cospirazione fra i gesti e il reale: più ti comporti da incinta più credi di esserlo.

Non lo dici. Lo dici a persone assurde. Sono gli estranei i primi dirimpettai di un’attesa che non sa se attendere: la farmacista che ti vende il test. L’infermiera che ti fa le beta.

Il barista: il barista lo prendi sotto quasi per sbaglio, sembra un incidente. Non hai avuto scelta: sono le tredici, hai fame, sei in giro o in pausa e vuoi un panino. Li interroghi tutti, quei sandwich: “E questo?”

Non ce n’è uno col cotto e un formaggio pastorizzato sicuro. E allora stai lì, lo dico o non lo dico. Se rischiare un contagio per una sciocca timidezza. Oppure essere sfrontata.

E poi ti fai forza, spingi un po’ su quella voce che ti si incaglia, gli dici di farti un panino nuovo, sei stata zitta per un po’ ma quello mica se l’è bevuta che avevi i cavoli tuoi, ti è stato addosso con le domande a mitraglia, non ti piace la fontina? Vuoi il salame piccante? Speck e brie? E alla fine lo trapassi come i fanali sul guardrail nella notte: “Forse sono incinta, quindi solo cotto e formaggi sicuri“.

E vieni via con una focaccia mozzarella e cotto. Ce l’hai fatta.

Tutto sommato devi difendere il tuo diritto a sperare.

I medici: anche a loro lo diresti per ultimi. Vorresti fare la scala delle intimità, cominciare da te, saperlo tu, e poi allargarti come l’olio, tuo marito, le amiche, i nonni.

Invece hai un’infezione ai bronchi, e così i medici stanno lì, pronti come oche da ingozzare: devono sapere se e cosa possono darti. Quale chimica. Devono sapere se hai dentro una vita. Ma tu mica gliela vorresti dare: non a loro, non così.

Sono giorni che ti spalanchi come quando avete fatto l’amore, la vita e il mondo, gli occhi, diventano così permeabili, e forse in questa sensibilità allucinante ti sembra d’avere una conferma in più di essere in gravidanza.

Ma sono anche giorni chiusi, intimi, che hanno bisogno del loro tabernacolo, di attendere: quell’eucarestia che viene o che non viene.

Mentre un attimo sei certa di sì, e quello dopo ti senti ridicola per averci creduto.

Mentre già sfogli nomi nella testa e poi no, per scaramanzia.

Mentre l’impazienza ti fa il fiato corto, ma stare sospesa è un privilegio squisito.

Mentre pensi lei sa: la natura lo sa, lo sa il piccolo, se c’è, lo sa il mio corpo. E io sono qui mentre tutto, mentre niente accade.